Piero Sanavio

LA FELICITÀ DELLA VITA

Quasar e Piero Manni, Roma – Lecce, 2000. 404 p.

 

Pubblicata sulla rivista “Padova e il suo territorio”

 

“Lo chiamavano Stepàn, Etienne, Stefano, sapeva che erano varianti di uno stesso nome, ugualmente a volte ci si perdeva. La confusione nasceva in famiglia, le lingue si accavallavano per le diverse origini delle persone, moltiplicavano le parentele. Non capiva i legami con la signora arrivata da poco a Venezia, Irina. ZiaIrina? era per parte di chi?”

Questo l’incipit de La felicità della vita, quinto romanzo del padovano Piero Sanavio. Poche righe, che informano sin dall’inizio sugli aspetti formali del romanzo: le due parole “varianti” e “lingue” rivelano infatti la struttura di carattere antropologico che si mantiene per tutta la durata del racconto.

In Sanavio le varianti non sono però quelle delle leggende popolari, cioè quei cambiamenti che un gruppo sociale apporta al racconto epico per adattarlo alle evoluzioni sociali, economiche, politiche del gruppo stesso. Di questo, Sanavio ha già fatto materia in un precedente romanzo, interamente fondato sulla descrizione e i significati degli occultamenti di un fatto, da parte di un potere immutato nei secoli, per mascherare le ragioni di un omicidio, ultimo anello di una catena di omicidi e violenze e sopraffazioni che continuano nel passato, seguiteranno nel futuro.

Ne La felicità della vita le “varianti” sullo svolgimento dei fatti sono le menzogne sempre rinnovate che un gruppo famigliare elabora come autodifesa, vale a dire come strumento di gestione del proprio potere. Anche qui, pubblico e privato si confondono. All’interno del gruppo, chi non accetta la versione “canonica”, ufficiale, anzi le molte versioni dei fatti, viene subito messo fuori gioco: così, allo Stefano di cui l’incipit del romanzo, sarà resa impossibile la conoscenza della verità.

Per Sanavio la verità non esiste. Esistono “le” verità. Ma il vero non è ciò che gli altri (dall’interno o dall’esterno della formazione sociale cui appartengono) vogliono propinare come tale, ma ciò che l’individuo vuole che sia tale; il vero, cioè, è la ragione che ognuno si dà, autonomamente, di una vicenda che lo riguarda.

Se le varianti sono menzogne, il terreno più fertile di queste ultime è la confusione. E veniamo dunque all’altra parola chiave dell’incipit: le lingue. La molteplicità di lingue con cui il romanzo è scritto (tutti i passi sono però tradotti dall’autore in nota a piè di pagina) non richiama soltanto una Babele, banale metafora della confusione; come detto, Sanavio è un antropologo, e l’antropologia e la linguistica sono fra loro strettamente legate attraverso la disciplina attorno alla quale entrambe si sono evolute per buona parte del Novecento: lo strutturalismo. La lingua come metafora della confusione raggiunge quindi, ne La felicità della vita, i massimi livelli dell’ambiguo: ecco quindi, per esempio, che l’espressione “un vieux canotier”, nel senso di “un vecchio canottiere”, rischia di diventare “un vecchio cappello” (come spiega l’Autore, la parola “canotier” può infatti indicare sia il canottiere sia il cappello alla Maurice Chevalier). Ma non si dimentichi che può trattarsi anche di un richiamo al titolo della celebre opera di Tommaso Landolfi “La biere du pecheur” (che si può tradurre sia come “La bara del peccatore”, sia come “La birra del pescatore”). In effetti il romanzo, per chi sa cercarle, è densissimo di citazioni letterarie, nascoste nel testo non in esercizi narcisistici ma come reliquie di una cultura e di un’epoca tramontate. Sono, forse, anche tracce della lunga consuetudine, non solo letteraria, di Sanavio con T.S. Eliot ed Ezra Pound? Una citazione è la stessa copertina del libro, che ripete la gabbia grafica del maestro stampatore Darantiére, il quale produsse la prima edizione dell’Ulisse di Joyce. Riecco dunque il Sanavio scrittore, il quale tiene a precisare, senza nessuna metafora ma tramite un apposito “Poscritto” al romanzo, che “la letteratura nasce soltanto dalla letteratura”.

Ne La felicità della vita lo strutturalismo diventa strumento per fare letteratura. Non si tratta però dello strutturalismo di Esercizi di stile di Queneau. Si tratta di uno strutturalismo antropologico, in cui gli individui (a cominciare da Stefano) vengono identificati sulla base della loro collocazione all’interno di uno schema famigliare. Lo schema diviene poi struttura tramite il lungo insieme di omicidi e suicidi che costella il romanzo. Questi delitti sembrano infatti indicare anche i termini di un’autorganizzazione (usiamo una parola famigliare agli strutturalisti) della struttura famigliare.

L’analisi di Sanavio non si ferma però all’ambito famigliare. La struttura famigliare è metafora della struttura che più sta a cuore a Sanavio: la struttura del potere. Se un precedente romanzo, La patria, è metafora di un unico omicidio, il delitto di Giacomo Matteotti, i delitti de La felicità della vita possono essere visti come metafora del più torbido periodo attraversato dal nostro Paese: il periodo del terrorismo e delle trame eversive. Non è una lettura forzata del romanzo: Sanavio proviene dall’esperienza giornalistica de “Il mondo”, in cui si è trovato a compiere preziose inchieste relative alle tristemente famose “trame nere”.

Quella “confusione” che “nasceva in famiglia”, riprendendo le parole dell’incipit, e che accompagna tutto il romanzo, ricorda quindi non troppo vagamente i tristi anni dell’eversione in Italia. Sanavio non perde tempo a cercare menti occulti. La sua non è un’inchiesta né un’opera ideologica, ma la ricerca di una forma, la forma del Potere. Ed è nella “confusione”, nel caos, che questo Potere può essere osservato: quel caos (figlio o fratello dello strutturalismo) che fisici e matematici, ma anche antropologi, hanno cominciato ad analizzare negli ultimi decenni del Novecento. Secondo i teorici del caos, il caos non è disordine, ma ordine occulto, che accompagna tanto le leggi matematiche delle equazioni non lineari, quanto le leggi dell’eversione. Un ordine occulto che si ritrova ben allignato nei meandri del romanzo di Sanavio, visibile solo a chi è disposto a riconoscerlo per quel che è.