Silvia Giralucci

“L’inferno sono gli altri”

Mondadori, Milano, 2011

 

Pubblicata sulla rivista “Padova e il suo territorio”

 

Finalmente una vittima che non mette al centro della sua vicenda di violenza la questione del perdono: “Non riesco neppure a pensare al perdono per gli assassini di mio padre. Da laica immagino il perdono solo all’interno di una relazione, e io con quelle persone non ho nulla da spartire.”

Queste parole appartengono a quella che fu una bambina di 3 anni, ora adulta ed autrice di questo libro. Suo padre, Graziano Giralucci, venne assassinato assieme al compagno di partito Giuseppe Mazzola il 17 giugno 1974 dalle Brigate Rosse, nella sede del Movimento Sociale Italiano in Via Zabarella a Padova.

La foto dell’autrice a tutta pagina in quarta di copertina parla forse più di tutto il libro, attraverso lo sguardo riservato e irrequieto (e dolce), che sempre l’accompagna. Lo stesso sguardo con cui ci si può immaginare si sia rivolta a Pietro Calogero per avere rassicurazioni circa i presunti, quanto infondati, rapporti del proprio padre con l’agente del SID Guido Giannettini e i Servizi deviati. Abituata al silenzio impostole sin dall’infanzia dalla madre su tutta la vicenda, si rivolgerà al magistrato solo dopo avere raggiunto “un buon grado di confidenza”. Poche parole. Per seppellire per sempre una bassa insinuazione durata decenni.

Importantissimo l’incontro con Calogero. È l’incontro fra due persone che hanno vissuto le rispettive vicende, nazionale l’uno e personale l’altra, nella solitudine. Non ha valore di mero aneddoto il modo con cui il magistrato verbalizzava gli interrogatori: da solo, per evitare le fughe di notizie, battendo a macchina con due dita.

Il libro è il felice risultato di un intenso intreccio narrativo fra la storia personale dell’autrice e le vicende storiche nazionali del terrorismo italiano negli anni Settanta e Ottanta. Un intreccio di straordinario equilibrio: nessuna condanna, ma neppure nessuna assoluzione. Solo la volontà di “comprendere anche le ragioni di chi ti è stato nemico.”

Riguardo la storia personale il libro è infatti il frutto della pesante situazione famigliare e sociale che ha ingiustificatamente vissuto l’autrice. Si tratta non solo del vincolo del silenzio imposto dalla madre forse a causa della mancata elaborazione del proprio lutto, ma anche di quell’essere considerata figlia, in fondo, di un “fascista”, quindi una vittima di serie B.

Riguardo la storia nazionale l’approccio è quello dettato dalla professione di seria giornalista: raccontare i fatti separandoli dalle emozioni e dai giudizi. Nonostante la grande ammirazione per il prof. Guido Petter, ammirazione che traspare sin dal titolo del capitolo a lui dedicato (“Due volte partigiano”), l’autrice non manca di riportargli un’accusa. Si tratta di un probabile scambio di persona che Petter avrebbe effettuato ai danni di una donna, accusandola al posto di un’altra. Lo scambio costò il carcere alla persona che sarebbe stata ingiustamente scambiata e di cui l’autrice raccoglie la testimonianza. La conobbe trent’anni dopo nel corso dell’inchiesta effettuata per realizzare il libro.

Non mancano vicende e personaggi inquietanti.

Fra le vicende la scuola di lingue Hyperion, i cui connotati portarono Calogero ad intuirne la funzione di principale centro di irraggiamento del terrorismo in Italia. Ma Calogero era solo, e di fronte alle forti pressioni internazionali e nazionali è costretto ad abbandonare questo filone. Vien da pensare che sia ancora vivo proprio per questa sua sensata scelta.

Fra i personaggi Claudio Latino, detto “Rana Kid”. Nel libro non compare più di quattro volte. Chi è questo individuo? Il suo nome appare in tutti i passaggi salienti delle violenze commesse in quegli anni a Padova. Inoltre fu tra i primi a sparire dalla circolazione dopo il 7 aprile, per poi trovarsi arrestato nel 2007 per essere l’ideologo delle Nuove brigate rosse.

Perché, dunque, leggere questo libro? Perché la storia che esso racconta può anche non appartenerci (non tutti facevano politica a quei tempi, e chi la faceva non è detto la facesse in termini anti o filo terrorismo), ma la vicenda personale di chi la racconta ci riguarda di sicuro. Ci riguarda perché di tutto si possono incolpare i carnefici di Via Zabarella, ma non della solitudine in cui vennero lasciate le loro vittime.