Giuseppe de Concini

SANGUE BLU

S.i.p., Padova, 2004, pp. 352

(Pubblicata sul n. 115 della rivista “Padova e il suo territorio”)

 

Un titolo dai forti tratti cromatici caratterizza questo romanzo d’esordio del padovano Giuseppe de Concini: il rosso del sangue di ben due delitti, il blu dell’ambiente aristocratico padovano in cui essi vengono commessi, il giallo del genere al quale l’Autore assegna il romanzo.

In realtà, questo gioco di allusioni presente nel titolo rimanda alla chiave allusiva e simbolica che accompagna tutto il romanzo. Un romanzo tanto complesso quanto scorrevole e avvincente, caratterizzato da una straordinaria molteplicità di piani di lettura: dal più immediato e meno impegnativo piano del romanzo giallo, sino ad una complessa rete di metafore e simboli che mettono a nudo con crudezza e spregiudicatezza i tratti più oscuri e meschini della nostra società, non solo padovana.

Si accede al piano simbolico attraverso la padovanità del romanzo. Non è mancato chi, armato di bici e pianta del centro storico cittadino, è andato alla ricerca dei luoghi citati nel romanzo, a cominciare da quel misterioso palazzo Dauli sede dei due delitti. Ma non è la rassicurante “Padova delle piazze” ad interessare a de Concini. Essa gli serve, piuttosto, come mezzo di contrasto per parlare dell’”altra Padova”, quella impenetrabile agli stessi padovani, racchiusa negli sigillatissimi palazzi cittadini. Una Padova splendidamente rappresentata da Palazzo Dauli, cioè talmente inaccessibile da riuscire a non far sapere neppure dov’è.

Questo iniziale livello metaforico non si limita agli aspetti urbani, ma si estende ai personaggi.

È per esempio il caso del viceprefetto Pierluigi Verre. Chi voglia vedere in esso una cruda e reale rappresentazione dell’attuale crisi di senso dello Stato lo può fare, ma non senza notare che attraverso la sua odiosità, Verre riesce a rappresentare anche quella parte del ceto medio italiano che preferisce affermarsi con la comodità dell’autoritatismo invece che con la sfida data dall’autorevolezza.

I personaggi, eccetto i tre membri dell’aristocratica famiglia Dauli, appartengono e ben rappresentano il ceto medio veneto e italiano. O meglio, quella parte del ceto medio così debole e ignorante da ricercare la propria legittimazione non all’interno della propria scala valoriale, ma in esteriori frequentazioni di decadute aristocrazie. Sarà proprio la loro ignoranza e debolezza a spingerli a ricercare le cause dei due omicidi in risibili circostanze sataniche, ottime coperture per il colpevole.

Splendide le pagine dedicate alla seduta spiritica, che sembra ricalcare quei riti (delfici? eleusini?) ben noti al lettore raffinato. In esse, però, lo stesso lettore scoprirà non esserci nulla di… “esoterico” ma molto di ironico: infatti, a dominare la seduta (o meglio, il rito) sarà un insolito sacrificio: quello del messale satanico ritrovato contestualmente ai due delitti, che verrà dato alle fiamme per esorcizzare “la meledizione” che esso conterrebbe.

Un libro, dunque, viene bruciato come simbolo del “Male”, cioè di quel sapere, di quella cultura, di quella ragione con la quale vorrebbero non fare i conti tanto i personaggi del romanzo quanto gli ignoranti e malvagi ammiratori di Satana che da qualche tempo popolano la nostra cronaca.

A questo punto de Concini supera il piano metaforico per affrontare con successo l’impegnativo livello simbolico rappresentato dal controverso Ascanio Amulio, personificazione di una discesa ad infera e di una risalita verso il paradiso della consapevolezza, tali da far pensare alla tradizione letteraria medievale.

All’inizio del romanzo Ascanio viene collocato al livello più basso: viene definito “sensitivo” e posto quindi alla stregua di un qualsiasi ciarlatano televisivo che pretenda di evocare “spiriti”. Ma attenzione: chi vuole “evocare” può anche essere qualcuno privo di mezzi culturali alla ricerca di qualcosa che non sia terreno.

E questa ricerca di Ascanio comincia timidamente ad apparire quando egli manifesta il suo tremendo interesse a dare alle fiamme quel messale, risultando un personaggio piuttosto incolto e bizzarro che cerca di difendersi dal “maligno” come può.

Successivamente, però, il lettore scopre che tanto incolto Ascanio non è. La sua abitazione è tappezzata di libri, dal Dictionnaire Infernal di Collin de Plance alle Vaticani Secundi Constitutiones di mons. Ulderico Gamba. Come può, dunque, un personaggio del genere aver paura proprio di un libro? Può. Quel messale, infatti, ai suoi occhi non è la rappresentazione di una forma (indegna) di cultura, ma l’oggetto della sua tentazione: celebrare una messa nera. Ascanio, infatti, è un prete che si è spretato.

Ascanio è il personaggio più controverso e positivo, che ben rappresenta la parte più viva, ma poco appariscente, della nostra società: quella parte che accetta ancora di interrogarsi. Ascanio uscirà vincitore non tanto per l’acquisita consapevolezza della sua debolezza, ma per la forza dimostrata nell’aver accettato la sfida di guardare allo specchio le sue miserie interiori, la sua condizione umana.