Lo scrittore padovano Giuseppe de Concini completa la sua trilogia africana

MORIRE PER NIENTE” 

 Una Somalia in cui si muore di tutto e per niente. Anche di rifiuti: gli stessi che ora si seppelliscono sotto le nostre autostrade

 

 Giuseppe de Concini
“Morire per niente”
Edizioni UTVI, Vicenza, 2017

Si conclude con “Morire per niente” la trilogia africana di questo autore iniziata con “Il pastore di Amber” (2011) e proseguita con “Il pianto del cobra” (2014).

Con questo romanzo de Concini ritorna in Somalia, donando a questo Paese, o a ciò che resta di esso, una profonda riflessione in chiave letteraria che supera nettamente gli aspetti autobiografici per gran parte presenti nei romanzi precedenti. Se autobiografia c’è, non è quella del suo autore ma quella che l’autore fa del proprio Paese, l’Italia. Ed è un’autobiografia disincantata e asciutta, in cui la storia della Somalia diviene lo specchio dei principali fatti di cronaca italiani di questi ultimi anni. A cominciare dalle vicende legate a due autostrade: la Garoe-Bosaso (somala) e quella molto più vicina a noi e nota come Valdastico. La prima divenne la tomba di centinaia di tonnellate di rifiuti tossici; la seconda pure. Sulla prima stava indagando Ilaria Alpi, sulla seconda indagano i magistrati veneti. Due vicende molto simili, forse conseguenza una dell’altra? Viene da chiedersi se in Italia i rifiuti si sia cominciato a seppellirli quando ormai in Somalia non si poteva più. Pare di sì, almeno in senso metaforico, perché il prezzo di tutto ciò che è stato sottratto alla Somalia e alle altre colonie italiane e non, lo si sta pagando adesso. E non si tratta solo di rifiuti, ma anche delle persone che quotidianamente agognano le nostre coste.

Una bomba ad orologeria, la Somalia di questo romanzo di de Concini. Che ci è scoppiata in mano.

Ma anche un incontro-scontro fra due mondi che non hanno un codice comune per comprendersi. Di grande valore letterario tutto il primo capitolo, nel quale attraverso una morte (avvenuta “per niente” come tutte le altre morti narrate) de Concini descrive quello che per noi corrisponde ad uno shock da attentato: non quindi il “durante”, ovvero i momenti specifici dell’aggressione, ma il “dopo”, ovvero quando la comunità deve gestire il proprio lutto, i propri sentimenti, decidere il da farsi. Ma soprattutto scontrasi con l’ineluttabile.

Un Paese inascoltato, la Somalia di questo romanzo, nel quale neppure la cosa più vicina al mondo occidentale come l’archeologia viene considerata se l’archeologo è un somalo. Anzi, addirittura lo si esilia. E i preziosi graffiti da lui scoperti verranno considerati soltanto dopo vent’anni, quando a riscoprirli saranno degli occidentali.

Una Somalia in cui si muore a cinque anni di setticemia a causa dell’infibulazione, o perché mangiati dai leoni, o per il latte di una madre malata di dissenteria. Un Paese in cui la permanenza italiana non è servita neppure ad estinguere la pratica dell’infibulazione, e nel quale ora che l’Italia ha “chiuso” col proprio passato post-coloniale non esiste nemmeno più il lebbrosario e il dispensario nel quale recarsi per cercare di non morire per niente.